L’acqua cotta ha sfamato generazioni di lavoratori della maremma: sia che facessero i mandriani, i pastori o i carbonai, si preparavano tutti l’acqua cotta. Un mangiare che variava con le stagioni o con ciò che si trovava nei campi o nei boschi e che ci si poteva permettere di cuocere in pentola. mandriani e i pastori, che un tempo andavano a trascorrere lunghi mesi in maremma con le loro bestie, anche quando andava bene, nel tascapane avevano poche cose che dovevano durare il più a lungo possibile: una bottiglia d’olio, alcune coppia d’uova, qualche cipolla e qualche aglio, un po’ di baccalà secco, del pane, un pezzo di pancetta di maiale, o del lardo e l’agreste, che a quei tempi veniva usato al posto del pomodoro ed era ottenuto strizzando l’uva mezza acerba d’agosto, in un recipiente chiuso poi da cera d’api. Così, mentre facevano pascolare le bestie, anche il mandriano e il pastore cercavano le erbe, le pulivano, poi le bollivano e le strizzavano in piccole palle.
Era questa una ricetta legata indissolubilmente sia al trascorrere delle stagioni, dato che venivano usate piante spontanee raccolte nei campi o nei pascoli e sia ai mestieri: per esempio diversa dalle altre era l’acqua cotta dei pecorai che potevano arricchirla con un po’ del formaggio prodotto dal loro gregge. L’acqua cotta era un piatto per gente che viveva male. Era un piatto che cambiava di paese in paese, di casa in casa, di stagione in stagione.
Fra pecorai e mandriani c’era sempre qualcuno addetto alla preparazione del pasto: spesso si trattava di polenta e formaggio, di pancetta cotta sulla brace o dell’acqua cotta, fatta con poche erbette e odori che si portavano da casa. L’acqua cotta nasce, come la grande maggioranza dei piatti poveri nostri costumi, dalle nostre più fiere tradizioni di povertà e di abbisogno di un piatto unico e nutriente nei mesi freddi e piovosi. Era un piatto servito molto caldo, in una terrina di forma più o meno circolare, elaborata sulle braci in una pentola anch’essa di terracotta. Era praticamente una brodaglia calda per gente gitana.
Gli ingredienti per il piatto tradizionale sono questi: cavolo nero, uova, pane, aglio, sale grosso, olio, sedano, e cipolle.
Il pomodoro nella ricetta originale non c’era per il semplice fatto che allora in italia e in europa ancora non esisteva: fu infatti importato dall’america meridionale (perù per l’esattezza) solo nel XVI secolo dopo cristo. Nei primi piatti veniva usato l’agreste al posto del pomodoro. Preparazione:
mettete in una pentola alta 2-3 litri di acqua di acqua fredda, sale grosso, 3 etti di cavolo nero lavato, 2 cipolle fatte a pezzi grossolanamente, 3 costole di sedano tagliate a rondelle. Appena l’acqua comincia a bollire, inserite tutte le verdure e fate cuocere per 1 ora a fuoco medio senza coperchi. Finita la cottura mettete 2 uova intere e un giro di olio a crudo e girate la minestra per 2 minuti. Separatamente preparate 1 fetta di pane ciascuno, piuttosto alta (meglio sarebbe se il pane fosse del giorno prima) e strusciatelo con aglio fresco. Depositatelo sul fondo di una scodella ampia e versateci sopra la minestra.
Ricordatevi che la consistenza deve essere molto acquosa – da qui il nome acqua cotta – e servita molto calda. La vostra pietanza cosi risulterà originale e particolare con i suoi sapori delicati di sedano e cavolo nero.